È davvero solido il legame tra Nando Sanvito e Carate Brianza, la sua città natale. Volto noto della tv per parecchi anni, l’ex giornalista sportivo di Mediaset è cresciuto e vive in Brianza: una terra a cui ha dedicato anche ricerche storiche, come mi ha spiegato durante una piacevole chiacchierata. Ecco cosa mi ha raccontato.
Nando Sanvito è stato per molti anni uno dei più famosi giornalisti sportivi di Mediaset, inviato e bordocampista delle più importanti partite di calcio internazionali. Non tutti sanno, però, che Sanvito è autore anche di diverse pubblicazioni che riguardano la Brianza, terra che lo ha visto nascere e dove vive ancora oggi. L’ho intervistato per saperne un po’ di più.
Nando, innanzitutto grazie per la tua disponibilità. Partiamo dalle tue origini: Carate Brianza.
“Sì, a Carate sono nato, sono cresciuto e vivo ancora adesso. Da bambino abitavo in un cortile prospiciente all’oratorio maschile, nella zona detta del Lughett: era la Curt di Brügul, una corte di ringhiera che c’è ancora oggi. Brügul era il soprannome della famiglia di mio papà, forse perché proveniva da una Cascina Brugora che si trovava dalle parti di Riverio”.
Anche la tua famiglia era originaria di Carate?
“Sì, mio nonno gestiva il circolo socialista del Loghetto. Mia mamma, invece, era di Agliate, e prima che si sposasse abitava in una corte che si trova proprio di fronte alla Basilica dei Santi Pietro e Paolo. Ricordo che quando andavo da mia nonna – e in estate trascorrevo lì intere giornate – ero affascinato da quel monumento carico di storia”.
Che altri ricordi hai della tua infanzia a Carate?
“Il ricordo più vivo è quello del bagno che si faceva in estate: si metteva al centro della corte un enorme mastello in legno e si lasciava scaldare l’acqua al sole; poi entravo con gli altri bambini, tutti assieme. Un centro di aggregazione fortissimo era l’oratorio, fonte primaria di socialità: lì si cresceva in compagnia. Bambini ma non solo: ricordo che tante persone, durante ul temp de l’ura (cioè la pausa pranzo prima di riprendere a lavorare), venivano a giocare a calcio in oratorio per svagarsi. Ho in mente il ricordo indelebile di un mio vicino che, pur di non rinunciare a quel momento, si metteva nella tasca una coscia di pollo (il garon de pulaster) e ogni tanto gli dava un morso mentre giocava”.
Com’era essere ragazzi negli anni ’60 in Brianza?
“Finita la scuola passavamo le giornate nei campi. Succhiavamo un’erba agrodolce, che chiamavamo paciuchin. Oppure prendevamo i maggiolini, li legavamo per una zampetta a un filo e li portavamo in giro come fossero aquiloni. A quei tempi c’erano le bande giovanili, un po’ come ne I ragazzi della via Pal. Attorno a ciascun abitato si formavano delle bande composte da ragazzini di tutte le età, che poi si scontravano con le bande degli altri posti. Ci si affrontava a mani nude, o con dei bastoni, o tirando sassi: insomma, una situazione goliardica ma non troppo. Ricordo che una volta venni fatto prigioniero da una banda avversaria e portato in una cascina che si trovava dove oggi c’è il municipio di Carate. Mi legarono lì e fu mia mamma che venne a liberarmi: così, dopo averle prese dai rivali le presi anche da lei”.
Poi, crescendo…
“Liceo Zucchi a Monza e università a Milano. Ho studiato Lettere e così ho avuto modo di affrontare tanti esami di storia (all’epoca non c’era ancora uno specifico corso di laurea in storia). La mia tesi di laurea era incentrata sulla rappresentazione nella storiografia spagnola del periodo franchista, dal 1939 al 1975”.
Un interesse per la storia che si riscontra anche nelle tue pubblicazioni incentrate sulla Brianza, a cui ti sei dedicato in parallelo alla tua professione giornalistica.
“Sì, anche se a dire il vero a mano a mano che l’attività giornalistica si è fatta più impegnativa purtroppo ho potuto dedicare meno tempo a questa mia passione. Una passione che coinvolge le mie origini e i luoghi della mia vita, oltre all’interesse storico”.
Iniziamo dal primo libro: Agliate. Un paese, un presepe.
“L’ho scritto nel 1988, con l’intento di valorizzare il presepe vivente di Agliate che si svolge ancora oggi. Una tradizione importante”.
Del 1989, invece, è I paesi di Inverigo.
“Quello fu un libro che mi fu commissionato da un editore e che mi permise di scoprire la ricchezza e la storia delle varie frazioni di Inverigo, che fino a quel momento avevo frequentato solo da ‘turista’”.
Hai scritto anche un saggio su Zizzanorre, una località di Cassago Brianza dal nome bizzarro.
“Un posto minuscolo, quasi sconosciuto e difficile da trovare, ma abitato già dal Medio Evo. Mi ci sono imbattuto quasi per caso, stavo cercando un percorso per organizzare una gara di mountain bike e sono finito lì. Attirato dal toponimo, ho voluto conoscere da vicino la sua storia. Zizzanorre è un gioiellino di architettura integrata dalla morfologia molto interessante, situato sul limitare dei resti di un lago glaciale che non esiste più, con peculiarità paesaggistiche uniche”.
Beh, ma alla fine quella gara di mountain bike si è svolta o no?
“Certo! Nell’occasione conobbi i proprietari di Villa Pedroli, lo storico edificio di Zizzanorre. Fu con loro che intrapresi una specie di scommessa: noi facciamo passare la corsa di qui e tu, in cambio, ti dedichi alla ricerca su Zizzanorre”.
È molto più recente, invece, il tuo ultimo libro sulla Brianza: Affreschi votivi di Agliate. Il caso dei rifugiati politici in Brianza nel XV secolo e altre storie del periodo gotico sulle rive del Lambro.
“Sì, diciamo che ha avuto origine dal periodo della pandemia. Con le restrizioni che ci sono state, ho sfruttato il tempo a disposizione per scrivere di un argomento – quello degli affreschi votivi di Agliate, appunto – a proposito del quale tenevo da parte già da tempo riflessioni e appunti. Ci tengo molto, anche perché gli affreschi gotici rappresentano la parte meno conosciuta della basilica. Le copie di questo libro, che non era in vendita, sono state offerte in omaggio a chi ha finanziato il restauro del battistero”.
Nando, quali sono i tuoi luoghi del cuore in Brianza?
“Fammi pensare… Ricordo che quando ero adolescente andavo a camminare in gruppo – e ti parlo di gruppi che a volte erano anche di 50 o 60 persone – fino a una località di Riverio, sotto Villa Orlanda: i Set Got, le Sette Gocce, un’area magnifica di sorgenti e risorgive al di là del Lambro. Da lì poi proseguivamo per Rancate in Valle della Brovada, per Canonica di Triuggio, per Zuccone, per Cascina Montemerlo… Un altro posto molto bello è Pomelasca di Inverigo, davvero suggestivo: un angolo di Toscana in Brianza che ho potuto conoscere proprio grazie al lavoro svolto per il libro. E poi per chiunque abiti da queste parti è irresistibile il fascino di Montevecchia”.
Ci sono, invece, dei luoghi poco conosciuti in Brianza che secondo te meriterebbero di essere scoperti?
“Oh, ce ne sarebbero tanti, ma ho paura a rivelarli: cerchiamo di tenerli preservati! Vediamo, posso dirti che di recente è stata ben valorizzata l’area di Baggero a Merone. Inoltre, mi ha impressionato molto il Castello di Crippa a Sirtori, un’altra zona poco nota ma stupenda”.
Nel corso delle tue frequentazioni professionali ti è mai capitato di far scoprire la Brianza a qualcuno che ne sia rimasto piacevolmente stupito?
“Posso raccontarti del medico di Bjorn Borg, che ebbi modo di conoscere per ragioni personali. Lui era svedese, di Goteborg: quando lo portai in Brianza, si innamorò di questa terra, al punto da tornarci poi tutti gli anni”.
Per concludere, come descriveresti la Brianza tu che l’hai vista cambiare ed evolversi nel corso del tempo?
“È innegabile che si tratti di una delle aree più urbanizzate d’Europa, e questo ha modificato il suo paesaggio. Una parte della Brianza che esisteva una volta adesso non c’è più, per via degli stravolgimenti che sono stati apportati dal suo dinamismo abitativo e imprenditoriale. Questo non vuol dire, comunque, che questa terra non abbia conservato il suo fascino. Si può, allora, tentare di trovare un equilibrio tra le necessità economiche e l’identità paesaggistica”.
I brianzoli possono farcela?
“Credo di sì. Quella della Brianza è una struttura sociale molto coesa per la religiosità della popolazione, che al tempo stesso denota una straordinaria capacità creativa e lavorativa, in grado di generare grande ricchezza. Ti cito un esempio: un mio zio che, pur non essendo un imprenditore ma solo un umile operaio indipendente, ha girato tutto il mondo per montare macchinari senza conoscere una lingua straniera. Nemmeno l’italiano, visto che parlava brianzolo! Ma, battuta a parte, la sua storia è il racconto esemplare dello spirito di iniziativa e di adattamento di chi ha vissuto qui”.
Grazie a Nando Sanvito per aver condiviso i suoi ricordi e le sue riflessioni con i lettori di Viaggiare in Brianza!
A proposito di Carate Brianza: il post qui sotto racconta e mostra tutto ciò che merita di essere visto in città, segnalando anche i migliori ristoranti in cui fermarsi a pranzo o a cena.
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Ah, dimenticavo: qui trovi il saggio di Nando Sanvito dedicato a Zizzanorre!